- Traduction de l’article de David L’Epée dans Rébellion par le GRECE Italie
Joseph Heath e Andrew Potter, filosofi canadesi, non sono tra coloro di cui sentiamo spesso parlare in Rebellion. A parte il fatto che sono relativamente poco conosciuti nel mondo francofono, va notato che non sono né socialisti (nel senso che lo intendiamo noi), né rivoluzionari, né particolarmente patriottici, e che la loro critica alla globalizzazione è molto diversa dalla nostra. Se si leggono attentamente, si trova che hanno anche un lato socialdemocratico molto centrista e molto compatibile con i liberal. Sulla maggior parte dei temi si schierano con il riformismo, sostengono lo sviluppo sostenibile piuttosto che la decrescita e chiedono misure a sostegno del sistema (come la deducibilità fiscale della pubblicità, ad esempio). Può quindi essere sorprendente vederci parlare qui di due scrittori che potrebbero sembrare molto tiepidi ai nostri lettori abituati a pensieri più vigorosi! Eppure, per chi si prende la briga di scavare un po’ più a fondo, sembra che il loro libro Révolte Consommee contenga delle analisi molto giudiziose e soprattutto molto originali.
La controcultura: da Gramsci a Freud
Il tema principale dell’opera è la controcultura. Gli autori riconducono questo concetto alla teoria marxista della sovrastruttura e ancor più alle tesi di Gramsci, che parlava della «necessità di creare una nuova cultura»1 e che aveva teorizzato in anticipo quello che oggi chiameremmo soft power, ossia la forma metapolitica (in questo caso, culturale) di un’azione politica soggiacente. Gramsci aveva capito che il sistema che stava combattendo non era basato solo su rapporti di forza di tipo economico ma anche su rappresentazioni ideologiche veicolate dalla cultura ufficiale, da qui la sua proposta di opporsi a quest’ultima con una controcultura per poter combattere sullo stesso terreno. Questa critica a quella che chiamava «egemonia culturale» ha ispirato molti scrittori di fantascienza, da Huxley a Orwell, e ha arricchito la riflessione su cosa potrebbe essere il totalitarismo moderno. Dopo l’esperienza di fascismi e comunismi, il rapporto tra egemonia culturale e mobilitazione di massa divenne evidente, e con esso l’idea che fosse necessaria la creazione di una controcultura per resistere a questi eccessi totalitari. Gustave Lebon, in Psicologia delle folle2, ha indicato i pericoli del conformismo di massa, preludio al tema filosofico della banalità del male come studiato da Hannah Arendt3o illustrato dal famoso e terrificante esperimento di Milgram4. Fino a qui si tratta di una riflessione che rientra nell’ambito del buon senso e non possiamo che essere d’accordo con i sostenitori della tesi controculturale. E in seguito che vengono i problemi …
L’analisi gramsciana è certamente più rilevante di una certa analisi marxista classica incapace di comprendere il mondo al di là di una lettura strettamente materialistica, ma anch’essa finì per fallire per monomania, come le suoi predecessore marxiste. Mentre queste ultime vedevano l’economico ovunque, le «contro-culturali» vedono l’aspetto psicologico ovunque. «L’opera di Sigmund Freund è per noi come l’acqua per i pesci. Difficilmente è considerata una teoria che potrebbe rivelarsi vera o falsa. È diventata il prisma attraverso il quale percepiamo tutta la realtà».5 Infatti, negli Stati Uniti (è principalmente questo campo che i due ricercatori hanno studiato), è stato soprattutto Freud a rendere popolare l’idea di controcultura, in particolare attraverso la sua tesi sulla «rimozione». Nel suo libro Il disagio della civiltà6, ipotizza l’esistenza di una nevrosi di massa, nata dalla progressiva interiorizzazione della violenza nel corso del tempo: il parallelo con le società totalitarie è presto tracciato. Nel caso ci siano ancora dubbi, Wilhelm Reich precisa tale idea nella sua Psicologia di massa del fascismo7. Se il nazismo si spiega con la nevrosi, il problema non è più politico, e nemmeno le sue possibili risoluzioni. Qui veniamo al cuore del dibattito: ciò che Heath e Potter rimproverano alla controcultura è l’abbandono della politica, caduta sotto i colpi di una visione del mondo puramente psicoanalitica.
A differenza delle tradizionali lotte sociali (cioè politiche), le battaglie sociali controculturali (in effetti sempre meno sociali) non mirano al cambiamento istituzionale in un’ottica di miglioramento generale, ma nientemeno che alla «liberazione psicologica degli oppressi»8, come Scriveva Theodore Roszak, il sociologo che ha reso popolare la nozione di controcultura durante il 68. Per i sostenitori di questa tesi, lavorare su sé stessi, cioè sulla propria coscienza, è la priorità rivoluzionaria per eccellenza, perché è da essa che dipende l’ambiente culturale, che è esso stesso la fonte sia dell’economia che delle istituzioni. È questo ragionamento, contrariamente al classico ragionamento marxista (secondo il quale questa «coscienza», che però non viene così chiamata, deriva dal primato dell’economia), che è all’origine di quello che possiamo chiamare attivismo sociale di sinistra odierno. A ciò si aggiunge un elemento più soggettivo ma determinante: l’attivismo controculturale è più gratificante, più divertente e meno laborioso dell’attivismo politico tradizionale. «Fare teatro interventistico, musica con una band o arte d’avanguardia, drogarsi e scopare come bestie, tutto questo è facilmente preferibile rispetto all’organizzazione sindacale come modo per passare il fine settimana. I ribelli controculturali sono riusciti a convincersi con l’inganno che tutta questa attività divertente sia in realtà più sovversiva della politica tradizionale di sinistra, perché attacca le fonti dell’oppressione e dell’ingiustizia a un livello “più profondo”».9
Droga e attivismo: dissidenza o devianza?
Qui troviamo uno dei temi che ho evocato nel n°55 di Rébellion, nel mio articolo su François de Negroni, il quale citava Edgar Morin quando sminuisce l’attivismo di partito e preferisce a esso i festival del rock e dell’amore10. Divertirsi diventa infatti, per l’attivista controculturale, il gesto sovversivo definitivo, ma anche il fine del sacrificio e dello sforzo rivoluzionario. Heath e Potter giungono alla seguente conclusione: «La soluzione consiste dunque nella riappropriazione della nostra capacità di procurarci il piacere spontaneo – attraverso la perversione polimorfa, la performance d’arte, il primitivismo moderno, le droghe psicotrope, e tutto quello che può eccitarci. Secondo l’analisi controculturale, il piacere in sé deve essere visto come l’atto di sovversione definitivo. L’edonismo si afferma come una dottrina rivoluzionaria».11 Il riferimento alla droga non è innocente perché il consumo di stupefacenti occuperà un posto ampio all’interno della controcultura. Gli attivisti hanno cominciato criticando l’alcol, considerato retrogrado, e connotato da vari difetti ai loro occhi: era legale (quindi parte del sistema), veniva consumato dai loro padri e nonni (quindi retrogrado e garante dell’ereditarietà, principio controrivoluzionario per definizione), offusca i sensi (viene paragonato alla «soma» de Il nuovo mondo di Aldous Huxley) e previene la rivolta offrendo agli sfruttati una sorta di compenso delle loro miserie. I militanti, che non sono certo dei monaci austeri, al contrario, opponevano a questo alcol reazionario Lsd e marijuana, che erano molto più trasgressivi e aprivano la mente a varie illuminazioni favorevoli alla rivoluzione12. Per citare ancora Roszak: «La ‘rivoluzione psichedelica’ si riduce quindi a un semplice sillogismo: cambiare lo stato di coscienza dominante, è cambiare il mondo; infatti, l’uso delle droghe cambia lo stato di coscienza dominante; quindi generalizzate l’uso delle droghe e cambierete il mondo».13 Ma gli autori non si lasciano ingannare e giustamente notano che «solo una persona sballata può credere che la marijuana liberi la mente. Gli altri sanno che non c’è niente di più noioso sulla Terra che parlare con un fumatore di erba».14
Questa fascinazione per le droghe riguarda meno il dissenso che la devianza tuttavia, e gli autori attribuiscono grande importanza a questa distinzione: se il dissenso è ciò che sfida convenzioni assurde o superate, come la disobbedienza civile, la devianza è ciò che viola le legittime norme sociali. Entriamo nella dissidenza perché abbiamo dei principi, entriamo nella devianza perché abbiamo motivazioni personali. Molte manifestazioni controculturali afferiscono a questo secondo scenario e sono apprezzate non tanto per i loro risultati politici ma piuttosto per il piacere che offre la loro pratica. Si può parlare di «glamourizzazione del comportamento antisociale»15, in quanto, oltre a questo piacere, esse apportano una sorta di prestigio, che si potrebbe chiamare il prestigio cool, contrapposto a quello conformista, associato all’ «omologato», che segue pedissequamente le regole stabilite. «E’ possibile essere un adulto normale ed equilibrato: basta seguire le regole che promuovono l’interesse generale, opponendosi coscienziosamente a quelle ingiuste. Tuttavia, la critica controculturale ha accuratamente ignorato questa opzione»16. Ma l’effetto positivo o negativo dell’obbedienza alle regole non è per gli attivisti controculturali il nocciolo della questione; per loro questa obbedienza è intrinsecamente negativa in quanto è una forma di comportamento di massa, che porta necessariamente al totalitarismo. Come certi anarchici, anch’essi credono nell’esistenza di una certa autoregolazione spontanea di tutti i disordini individuali, tanto che gli autori fustigano «questa fede ingenua nei poteri dell’armonia spontanea, che la controcultura condivide con la destra libertaria»17. Quanto alla natura socialmente problematica di queste deviazioni, essa non viene nemmeno messa in discussione, perché i critici controculturali dimenticano di porsi la famosa domanda kantiana: cosa accadrebbe se tutti si comportassero come me?
Gli autori sintetizzano bene il problema: «Dopo l’Olocausto, quella che fino ad allora era stata solo una moderata ripugnanza verso il conformismo, diffusa tra artisti e romantici, divenne un’avversione ipertrofica al minimo accenno di regolarità e di prevedibilità. Il conformismo fu elevato a peccato mortale e la società di massa divenne l’immagine dominante di una moderna distopia. Molti di coloro che in passato avrebbero sostenuto il popolo, hanno avuto paura di esso e del suo presunto potenziale di violenza e crudeltà. Per la sinistra progressista, la ferita era ancora più profonda. Molti temevano non solo il fascismo ma, in molti casi, la società stessa».18
Conformismo e desiderio di distinzione
Questa riflessione sul conformismo è secondo me il perno centrale di Révolte Consommée e ne rappresenta tutta la sua originalità, il che non significa che condivida la tesi di Heath e Potter sulla questione, ma la ritengo un prezioso contributo al dibattito. Siamo tra coloro che prontamente rimproverano alla globalizzazione, tra l’altro, di standardizzare il pianeta, di dissolvere tutte le identità e tutte le specificità in un magma globale, di livellare tutto, di rendere ogni città, ogni popolo, ogni nazione, ogni individuo uguale a tutti gli altri. Insomma, siamo convinti che la globalizzazione voglia renderci tutti conformi a un certo standard imposto e che questo sia tutto il dramma della questione. Secondo i due filosofi canadesi siamo sulla strada sbagliata e stiamo proprio cadendo nella trappola della controcultura. Come mai? Perché uno dei motori della globalizzazione capitalista a cui stiamo assistendo è il consumismo – su questo siamo tutti d’accordo – e questo consumismo non è guidato, contrariamente a quanto pensiamo, da alcun conformismo, ma al contrario dalla volontà di distinguersi, un desiderio che può essere associato (per la sua non conformità) a una forma di ribellione, perché «la ribellione è una delle più importanti fonti di distinzione nel mondo moderno»19. Questo desiderio di distinzione, componente primordiale della natura umana, si pensi alla teoria hegeliana sulla lotta originaria per il riconoscimento20, è un desiderio di affermarsi come superiori. E quando questa distinzione/superiorità può, o pretende di, essere ottenuta attraverso l’acquisizione di beni materiali, diventa un potente motore per il consumismo!
L’analisi controculturale commette quindi, sempre secondo i nostri autori, due errori fondamentali: 1) identifica il consumismo con il conformismo, quando quest’ultimo rappresenta in realtà un certo tipo di ribellione, e 2) si oppone a questo consumismo non con un rifiuto del consumismo ma proponendo un… alter-consumismo! In effetti, di fronte a certi tipi di consumo di massa (perché esiste anche quello), «si arriva a considerare politicamente radicali i gesti di consumo non standardizzati»21.
È tutto il tema del consumatore-cittadino o «consumAttore», gli appelli a «cambiare il mondo con il tuo carrello» o a rispettare una giornata internazionale senza shopping. Gli autori sottolineano che quest’ultima iniziativa è assurda perché il fatto di non consumare durante una giornata non cambia il fatto che, restando invariato il reddito delle persone, esse finiranno comunque per spenderlo interamente, o attraverso il consumo diretto oppure depositandolo in banca (che è la stessa cosa, poiché la banca reinvestirà costantemente il denaro che le è stato affidato). L’unica misura veramente efficace che i «consumAttori» potrebbero adottare sarebbe quella di chiedere una riduzione del proprio reddito, proposta che difficilmente susciterebbe grandi entusiasmi… Gli attivisti controculturali, generalmente appartenenti alla categoria sociologica che noi in Europa chiameremmo bobo – «la terza via magica tra i valori bohémien e l’etica protestante del lavoro»22 –, sono nella maggior parte dei casi individui che beneficiano di un potere d’acquisto relativamente alto e lo usano, come tutti, nelle attività di consumo. Solo, il bobo afferma di non consumare come tutti, non è un redneck (bestia nera della mitologia controculturale americana), ha gusti più raffinati, e quindi ripone tutto il suo snobismo nel fatto di consumare diversamente. La sua critica al consumismo è quindi soprattutto una critica a ciò che gli altri consumano!
Ma torniamo sul tema centrale del desiderio di distinzione. «Negli ultimi quarant’anni, la critica alla società di massa è stata uno dei motori più potenti della società dei consumi».23 Sebbene la tesi di questi due autori possa sorprendere a prima vista, si è portati a pensarci due volte quando si osserva il mondo della pubblicità. Vedete un singolo prodotto oggi che si pretende di vendere grazie a uno slogan ritenuto efficace come «compralo per essere come tutti gli altri»? Un marketing manager che rischiasse un approccio così goffo probabilmente non durerebbe a lungo in un’azienda… Al contrario, il tono degli slogan attuali è quello di «Think different (Pensa in modo diverso)» o «Be yourself (Sii te stesso)». Quando tutti acquistano le stesse scarpe sportive con l’obiettivo di affermare la propria differenza individuale, il risultato non è altro che un atto di consumo di massa, certo, ma resta il fatto che il motore di questo consumo in questo caso – non è la massificazione (cioè il conformismo) ma al contrario il desiderio di distinguersi, l’illusione dell’anticonformismo. Gli autori sono quindi giustificati a porre la seguente domanda: «E se la ribellione controculturale, invece di essere una conseguenza dell’intensificarsi della società dei consumi, ne fosse piuttosto un fattore?»24.
Ritorno alla politica
Le tesi di Heath e Potter sono quindi pienamente da appoggiare quando propugnano l’introduzione dell’uniforme scolastica: una misura conformista per frenare questo desiderio di distinzione che alimenta il capitalismo. «L’uniforme non elimina l’individualità, ma impone comunque alcuni vincoli alla sua espressione, il che ha l’effetto di attenuare il consumismo concorrenziale».25 E aggiungono: «Dobbiamo fare nuovamente spazio, nella nostra vita, al politico come nozione distinta dal culturale. Per creare questo spazio, potremmo iniziare eliminando la massa dei materiali di consumo e reintroducendo un po’ più di uniformità nelle nostre vite. Invece di “osare essere diversi”, forse dovremmo osare di essere simili».26
Gli autori chiudono la loro requisitoria con inviti rivolti alla sinistra canadese e americana affinché si liberino dalla gang controculturale e ritornino sulla strada del combattimento politico. In effetti, «il pensiero contro-culturale […] ostacola chiaramente la capacità della sinistra di istituire riforme sociali auspicabili [e] è un serio ostacolo allo sviluppo di un serio programma progressista».27 Il primato della cultura (critica al soft power e all’egemonia culturale, attivismo artistico) e l’eccessiva psicologizzazione della politica (fascismo come nevrosi di massa, capitalismo come frustrazione sessuale, rivoluzione come adesione ad un altro “stato di coscienza”, ecc.) hanno avuto l’effetto di creare un certo disprezzo o almeno un certo disinteresse per il modus operandi dell’attivismo politico tradizionale e quindi condannare i manifestanti a credere nell’impotenza politica. «In definitiva, l’idea della controcultura si basa su un errore. La ribellione contro-culturale è una pseudo-ribellione: un insieme di gesti spettacolari, del tutto privi di conseguenze politiche o economiche progressiste, che oscurano l’urgenza di costruire una società più giusta. In altre parole, questa è una ribellione che, al massimo, diverte i ribelli».28 Senza rimettere in discussione l’attualissima e molto pertinente analisi di Gramsci sulla necessità di un combattimento culturale, si tratta quindi di ricordare che è tuttavia proprio l’economico (e talvolta il politico) che sta al centro del potere, e che non è l’odore di una canna di hashish o l’accordo di una chitarra acustica che farà tremare questo potere dalle sue fondamenta.
David L’Epée
Joseph Heath & Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.69-73 et 188-189
(Articolo di David L’Epée per la Rivista Rébellion, pubblicato anche sul sito ufficiale della Rivista, https://rebellion-sre.fr/, “David L’Epée : Les illusions de la Contre-Culture”, 8 giugno 2022)
Traduzione a cura di Manuel Zanarini
Note:
1.Antonio Gramsci, Lettere dal carcere
2. Gustave Lebon, La psicologia delle folle
3. Hannah Arendt, Eichmann a Gerusalemme
4. Stanley Milgram, Sottomissione all’autorità
5. Joseph Heath e Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.53
6. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà
7. Wilhelm Reich, La psicologia di massa del fascismo
8. Theodore Roszak, La nascita di una controcultura
9. Joseph Heath & Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.81-82
10. François de Negroni, Le Savoir-Vivre Intellectuel, Delga, 2005
11. Joseph Heath & Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.21
12. Gli autori rimarcano che lo stesso discorso veniva portato avanti nel XIX secolo sull’assenzio ma «i comunisti e gli anarchici non promuovono l’alcolismo tra i lavoratori» (p.81)
13. Theodore Roszak, La nascita di una controcultura
14. Joseph Heath & Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.81
15. Ibid, p.121
16. Ibid, p.113
17. Ibid, p.417. All’inizio del libro (p.89) notano che «la controcultura hippie condivideva molte delle idee individualistiche e libertarie che hanno sempre dato tanta forza al neoliberismo e all’ideologia del mercato alla destra dello spettro politico americano».
18. Ibid, p.381
19. Ibid, p.208
20. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito
21. Joseph Heath & Andrew Potter, Révolte Consommée : le Mythe de la Contre-Culture, Naïve, 2005, p.136
22. Ibid, p.239 – Gli autori preferiscono usare il termine “hipster”, «fusione del bohémien anticonformista, del delinquente giovanile antisociale e del negro sensuale ed emarginato». (p.230)
23. Ibid, p.124
24. Ibid, p.124
25. Ibid, p.217
26. Ibid, p.222-223
27. Ibid, p.337
28. Ibid, p.85
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